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Marta Cuscunà è una delle artiste italiane contemporanee più interessanti. Se n’è accorto anche il Piccolo Teatro di Milano che, a partire dal 15 febbraio, le ha dedicato una personale di sei giorni al Teatro Grassi. Marta si muove nel campo del teatro di figura, rivisitandolo e utilizzando “pupazze” che ad ogni spettacolo diventano sempre più meccanicamente raffinate. Sul palco è da sola a dare voce alle sue creazioni, un esempio di “schizofrenia artistica” di grande impatto e precisione. Il pubblico ne resta completamente affascinato, non solo per la sua abilità di “burattinaia” moderna, ma anche per i temi che indaga da sempre, in particolare sociali e femminili. Nell’ultimo lavoro, Earthbound, aggiunge anche il tema dell’ambiente, che in sé racchiude il futuro di ognuno di noi, anche se non vogliamo rendercene ancora conto. In fondo, l’essere umano contemporaneo ha un fertile terreno digitale per distrarsi, per cui poco importa se i terreni e i paesaggi naturali, unica vera fonte di sostentamento, sono quasi al punto di non ritorno. Sempre riguardo argomenti affini, ha preso parte al programma tv La Fabbrica del Mondo, con Marco Paolini e Telmo Pievani, composto di tre puntate andate in onda a gennaio in prima serata su Rai Tre. In quel contesto Marta ha portato i suoi corvi meccatronici, protagonisti de Il canto della caduta (progettazione e realizzazione animatronica di Paola Villani, co-produzione: Centrale Fies, CSS Teatro stabile d’innovazione del Friuli Venezia Giulia, Teatro Stabile di Torino, São Luiz Teatro Municipal | Lisbona, ndr).
Ho avuto l’occasione di intervistare Marta che, con estrema generosità e pazienza, ha raccontato dei suoi spettacoli, dei suoi limiti, donandomi molti spunti di riflessioni e materiali da approfondire. Il tutto coronato da consigli di lettura estremamente utili per entrare nella testa di una donna di talento e prodiga allo studio.
Al Piccolo porti in quest’ordine: È belli vivere liberi, La semplicità ingannata e Il canto della caduta.
Esatto. A livello tematico, con Claudio Longhi abbiamo pensato di fare un viaggio indietro nel tempo. In È bello vivere liberi siamo nel periodo della Resistenza, con La Semplicità ingannata siamo nel ‘500 e arriviamo alla preistoria con Il Canto della caduta. Affrontiamo il tema delle rivendicazioni femminili andando a ritroso.
C’è un nemico comune che riesci a individuare nei tre testi?
Io spero che si noti il tema del sistema patriarcale che, pur in forme differenti, si attua nello stesso modo anche se in epoche diverse. Forse anche il tema del potere. In qualche modo, in tutti e tre gli spettacoli si racconta di una modalità di pensare al potere come a una sopraffazione del più forte sul più debole, invece che con un senso di responsabilità e di collaborazione. C’è sempre qualcuno che decide per qualcun altro, sia in un sistema fascista che patriarcale più o meno recente.
Secondo te c’è ancora bisogno di lottare? Con cosa dovrebbe uscire uno spettatore dalla sala dopo che ha visto uno dei tuoi spettacoli?
Secondo me c’è ancora bisogno di lottare e mi auspico che, nel fare questi spettacoli e nello scegliere queste storie, possa essere utile vedere come siano stati usati diversi meccanismi per attuare sempre le stesse logiche. E quindi avere degli strumenti in più per riconoscere le nuove modalità tramite cui questi meccanismi vengono messi in atto adesso. Forse anche riuscire ad avere delle suggestioni e delle idee su quali strategie siano state messe in alto in altre epoche per resistere.
Tu cosa pensi dei movimenti femministi odierni? Io personalmente penso che delle volte anche “l’esagerazione” del positivo, quella che talvolta è definita come positività tossica, possa causare un effetto boomerang. Proprio per questa difficoltà di un’inclusione completa, non mi ero mai accorta che nei tuoi spettacoli raccontassi storie di donne bianche. Non ci avevo fatto caso, e penso che anche questo sia parte del problema. Non è una critica nei tuoi confronti, forse è soprattutto un’autocritica e mi spaventa. Ascoltandoti mi sono proprio detta “non ci avevo fatto caso”. Con la televisione e il cinema mi capita di notarlo di più, invece in teatro, per qualche strano motivo, mi è meno evidente. Ci farò più caso.
La riflessione mi è venuta un po’ per il mio percorso, in più in questi giorni mi è capitato di fare qualche prova con il test che sta progettando l’Associazione Amleta: stanno mettendo a punto un test come strumento di valutazione, non in termini di giudizio, dei testi drammaturgici rispetto alla rappresentatività di genere. Ci sono delle domande, anche abbastanza semplici, per capire se un testo riesca a includere e rappresentare diversi tipi di identità. Ed effettivamente, anche nel mio caso, per quanto ci siano delle buone intenzioni dietro, rimane molto lavoro da fare. Poi bisogna prendere in considerazione che io posso avvicinarmi a determinate esperienze, posso cercare di fare spazio nei miei testi, ma forse non sono io la persona titolata per parlarne.
Se dovessi creare uno spettacolo su una resistenza femminile contemporanea, avresti già qualcuno in mente?
Forse mi viene in mente il lavoro più recente, Earthbound, che ancora non ha avuto molta possibilità di girare. È un lavoro interamente basato sul pensiero ecofemminista di Donna Haraway, che in qualche modo, pur proiettandosi nel futuro, quindi appellandosi alla fantascienza, porta la resistenza, anche teorica, di alcune pensatrici che in parte rientrano in questo movimento e che, secondo me, sono assolutamente necessarie per le sfide che stiamo affrontando in questo momento… e l’approccio con cui tentiamo di affrontarle rischia di essere un po’ depressivo. L’abbiamo visto anche con La Fabbrica del Mondo. Sono temi enormi e c’è anche un forte e inevitabile senso di colpa da parte delle generazioni che si sentono responsabili. Anche io fatico a trovare una coerenza tra ideale e quotidianità.
Hai citato La Fabbrica del Mondo. Per il programma con Marco Paolini e Telmo Pievani, andato in onda a gennaio in prima serata su Rai 3, hai partecipato non con le pupazze di Earthbound, ma con i corvi meccatronici che il pubblico potrà vedere ne Il Canto della Caduta.
La differenza è che le creature, i simbionti, di Earthbound conservano una parte umana: sono umani ibridati con specie in via di estinzione, quindi sono in parte nostri parenti. I corvi invece sono altro da noi, sono completamente non-umani. Questo secondo me permetteva uno sguardo a volte ancora più cinico, o più clemente o più affettuoso verso la nostra specie.
Com’è nata la tua partecipazione a La Fabbrica del Mondo?
Devo dire che si è trattato di un’altra esperienza abbastanza inaspettata perché io non sapevo che Marco (Paolini) e Michela (Signori) avessero visto i miei lavori. Sono stata anche molto spaventata perché io non accetto quasi mai di lavorare su commissione per progetti che non sono miei. Era proprio una sfida nella sfida lavorare pensando alla televisione per un progetto altrui su argomenti commissionati, ma che per fortuna si inserivano molto bene nel percorso teorico che stavo affrontando. La parte che ho apprezzato moltissimo è stato il coinvolgimento in tutto lo sviluppo del programma, questo mi ha permesso di poter seguire il ragionamento che veniva fatto intorno a quello che avrebbe riguardato anche le mie parti. Mi è stata lasciata totale libertà di scelta degli argomenti, del tono con cui trattarli… Il mio punto di vista è stato richiesto e stimolato.
Era la tua prima volta in TV?
Era la seconda, perché durante il primo lockdown ho partecipato al programma di Stefano Massini (Ricomincio da RaiTre, ndr) dove ho portato una scena de La semplicità ingannata. Però era la prima volta in un programma in cui partecipavo dall’inizio alla fine e, soprattutto, dove facevo qualcosa ad hoc. È stato un ambiente molto stimolante dove il teatro era molto presente e non solo da un punto di vista del linguaggio, ma anche per quanto riguardava le modalità di lavoro.
Quest’ultimo è un punto interessante. La Fabbrica del Mondo è un progetto ibrido da questo punto di vista che ha unito in sé diversi tipi di linguaggio. Magari è riuscito a dare maggior visibilità al teatro, che non ne ha sempre o, quantomeno, non al pari della televisione o del cinema. A tal proposito, hai degli artisti di riferimento che segui e consiglieresti?
Per quanto riguarda l’ibridazione teatro e altre forme espressive, il mio faro è Christiane Jatahy (Leone d’Oro alla Carriera alla Biennale Teatro 2022, ndr), regista brasiliana che alla Biennale di Venezia ha tenuto un corso che ho frequentato, dove ho avuto modo di approfondire la sua ricerca e di vedere il suo spettacolo incredibile E se ellas fossem para Moscou, tratto da Tre sorelle di Checov. Per me l’incontro con lei è stato una cosa sconvolgente, perché è una regista che ha una serie di competenze impressionanti, con una tale generosità nel condividerle che mi ha molto stupito. Lo spettacolo che ho citato è molto particolare, perché si struttura come una doppia visione. Il pubblico in una sala assiste allo spettacolo, dove ci sono degli attori che effettuano delle riprese, per poi spostarsi in un’altra sala, dove vede la versione cinematografica del medesimo spettacolo, montato in diretta, mentre c’è un altro pubblico che ne vede la versione teatrale nello stesso momento. Ed è sorprendente perché ti rendi conto di quanto può cambiare la storia a seconda di come la guardi. Inoltre, per me è stato incredibile constatare la sfida che la Jatahy ha messo di fronte al suo gruppo artistico.
Considerando la grande ricerca che svolgi per i tuoi spettacoli, quali sono i testi che consigli al pubblico che desidera approfondire le tematiche che vai ad analizzare?
Sicuramente molti testi di ecofemminismo, come Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infettodi Donna Haraway, Il fungo alla fine del mondo. La possibilità di vivere nelle rovine del capitalismo di Anna Lowenhaupt Tsing. Se invece vogliamo spaziare nel tema della rappresentatività, in questo momento sto leggendo Memorie della piantagione. Episodi di razzismo quotidiano di Grada Kilomba, tradotto da Mackda Ghebremariam Tesfaù, studiosa che ho incontrato allo Iuav di Venezia durante una serie di incontri tenuti da lei dal titolo Fare, disfare e performare la “razza”. Parlando di autori italiani, invece, mi è piaciuto molto Lo specchio di Dioniso. Quando un corpo può dirsi umano?del filosofo Carlo Sini e del biotecnologo Carlo Alberto Redi. Sono tutti testi che rientrano in Earthbound. Per quanto riguarda le tematiche sul genere, c’è Eroine. Come i personaggi delle serie TV possono aiutarci a fiorire di Marina Pierri.
In futuro pensi che potrai condividere la scena con qualcuno, magari facendo da regista a più attori e a più pupazzi?
Intanto vorrei sfatare il mito che io sia sola. Tutto il percorso artistico è fatto in condivisione, inoltre la personalità delle creature sulla scena è molto forte. Se penso al futuro e a cosa mi interesserebbe approfondire, l’aspetto di cimentarmi nella regia per ora è meno forte dell’idea di sviluppare ancora la ricerca sulla meccanica. In qualche modo, siccome è molto lunga la ricerca sui prototipi che portiamo avanti con Marco Rogante (assistente alla regia e direttore tecnico) e Paola Villani (scenografa e ideatrice delle pupazze), diventa complesso inserire un’ulteriore incognita che è quella del coinvolgimento di altre persone.
Qui tutte le date della tournée di Marta Cuscunà.
Marta Zannoner
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