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Immagine del redattoreMarta Zannoner

Recensione: “Miracoli Metropolitani”


Ph. Laila Pozzo

La verità fa male… e puzza di merda. Miracoli Metropolitani, il nuovo spettacolo di Carrozzeria Orfeo scritto da Gabriele Di Luca che ne firma la regia insieme ad Alessandro Tedeschi e Massimiliano Setti, che ha debuttato il 30 luglio al Napoli Teatro Festival all’interno del cortile della Reggia di Capodimonte, è una metafora su palcoscenico di una realtà che non appare poi troppo distopica. Sembra, anzi, uno dei possibili sviluppi a cui la nostra società sta tendendo naturalmente. Ed è per questo che fa così ridere, così applaudire e così spaventare. In una città in cui le fogne hanno straripato a causa della noncuranza ambientale e dove i liquami straripano e occupano le strade rendendo la quotidianità impossibile, all’interno di uno scantinato di una carrozzeria adibita a cucina, il ristorante Il Sorriso porta avanti la sua attività di consegne a domicilio di cibi per intolleranti alimentari, l’unico vero tipo di intolleranza che ci interessa. Sulla scena, una delle più grandi e impegnative create dalla compagnia, si alternano sette personaggi, ognuno con la propria maledizione sulle spalle: Plinio (Federico Vanni), lo chef stellato arrabbiato e inasprito dalla direzione che ha preso la sua carriera, la sua compagna (Beatrice Schiros), aspirante imprenditrice digitale e modaiola, sua madre (Daniela Piperno), tanto indomita sessantottina quanto genitore assente, il figliastro (Federico Gatti), ingenuo e privo di qualsiasi tipo di cultura che non sia strettamente collegata al mondo dei videogiochi, Hope (Ambra Chiarello), la lavapiatti immigrata dall’Etiopia, Mosquito (Pier Luigi Pasino), il rider galeotto con il sogno di sfondare al cinema e infine Cesare (Massimiliano Setti), il professore che entra a far parte del gruppo per uno scherzo del destino. Anche in questa nuova produzione la drammaturgia assesta colpi sotto la cintura e conferma Carrozzeria Orfeo tra le compagnie più brillanti in circolazione. Pop, spietata e fin troppo vera, la storia che si sviluppa davanti allo spettatore è un intreccio di situazioni disperate e dolorose: il male del mondo sembra concentrarsi in quello spazio rettangolare. Personalità diverse, campionario di anime e caratteri fin troppo sconfitti dalla società: c’è chi ha dovuto rinunciare ai suoi sogni per poter continuare a guadagnare, chi è convinto che seguendo i dettami della società riuscirà a farsi accettare e chi non riesce ad abbandonare il passato. Seppur portati allo stremo, ogni personaggio racconta un pezzo di contemporaneità. Ad aggiungersi a questo senso di soffocamento c’è il problema delle fogne, che minuto dopo minuto rilasciano per strada fiumi di acque nere, rendendo visibile agli occhi lo schifo sotterraneo che preferiamo dimenticare. L’ispirazione è nata da un vero fatto di cronaca inglese, mentre è perfettamente chiaro da che Paese provenga il contesto governativo in cui è collocata la storia, dove i politici all’opposizione urlano “prima la patria”: un po’ dappertutto, diciamo. Si potrebbe dire che si tratta di uno spettacolo assurdamente reale, che urla tramite il teatro di prenderci delle responsabilità, ma non sarebbe utile. È più efficace suggerire calorosamente di andare a vederlo e poi ognuno potrà farne ciò che vuole: postare l’immagine degli applausi finali sui social, ricavare spunti di riflessione, decidere di andare più spesso ad occupare le platee, etc. Solo un’ultima cosa: Massimiliano Setti, nel ruolo di Cesare, nonostante la merda fuori e dentro, semplicemente ti fa stare bene, così bene che fa quasi male.

Marta Zannoner

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