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Immagine del redattoreMarta Zannoner

Carrozzeria Orfeo: intervista a Gabriele Di Luca

11 Luglio 2019


foto l.tota

Un’umanità al microscopio fa l’equilibrista sul filo sottile dell’esistenza, senza grazia e senza rete di sicurezza, oscilla tra una paradossale verità e una spietata tenerezza mascherata da supereroina cinica. Quando la posta in gioco è tanto alta, e la vita diventa una parete scivolosa da risalire a mani nude, tutto intorno deve fare attrito, sostegno a cui aggrapparsi. Come la parola scritta da Gabriele Di Luca, ruvida e schietta, che non ha il tempo di perdersi in imbellettati ghirigori. Eppure, come un’ostrica, protegge dallo sguardo impietoso del mondo quel briciolo di bellezza che potrebbe salvare tutti, se tutti solo smettessero di forzarne l’apertura. Sospesa in una luminescenza divina ma agíta in un terreno sacrilego e iperumano, la trilogia di Carrozzeria Orfeo andata in scena per tre settimane al Teatro Elfo Puccini, squarcia le regole dell’apparenza e affonda il passo nelle fragilità inespresse e imputridite di esistenze al limite della sopravvivenza.

È la gabbia familiare che ingoia rabbia e sputa sensi di colpa di Thanks for Vaselina, il rifugio sociale di anime disadattate in Animali da bar, e trincea di speranze annichilite dal paradosso della povertà in Cous Cous Klan. Ogni personaggio dipinto è un insieme di condizioni. Non esiste la positività o la negatività: ogni carattere è contaminato da entrambi gli aspetti. La lente d’ingrandimento è sul pubblico, che rivede nell’eccesso un pezzo di sé.

In queste settimane di repliche, tra applausi e standing ovation di un pubblico completamente assorto e assorbito dagli spettacoli, abbiamo potuto curiosare dietro le quinte e passare del tempo con la compagnia, osservandone i caratteri e le abitudini. Abbiamo visto come gli attori scaldano le corde vocali, soffiando bolle d’aria in bottigliette d’acqua e ingerendo pasta di acciughe. Abbiamo patito il caldo vedendo la mise invernale adottata da Gabriele Di Luca per proteggersi da una grande amica-nemica dell’estate: l’aria condizionata a palla.

E abbiamo chiesto proprio a Gabriele, drammaturgo, e attore in Animali da bar e Thanks for Vaselina, di spiegarci qualcosa di più sui suoi testi, sui protagonisti e sui temi raccontati.

Le ambientazioni degli spettacoli fanno pensare un po’ al Beckett di Giorni Felici o di Finale di Partita: una situazione claustrofobica senza possibilità di riscatto. In che misura queste circostanze di indigenza contribuiscono a far emergere la fragilità umana?

Ci sono delle differenze. Qui gli habitat perdono un po’ la loro valenza simbolica e acquistano invece una valenza molto concreta: un appartamento in Thanks for Vaselina, un bar in Animali da bar e un campo nomadi in Cous Cous Klan. Quando insegno drammaturgia lavoro molto sul concetto di habitat, piuttosto che su quello di spazio teatrale. L’habitat fa riferimento alla natura e serve a interrogarci sulla valenza che assume anche nel mondo sociale, civilizzato. È logico che un habitat non racconta solo il luogo in cui è ambientato uno spettacolo, ma il sistema culturale, sociale e religioso in cui agiscono i personaggi. Indica la temperatura della vicenda. Lavoro su questo concetto perché mi aiuta a inserire i personaggi in determinate circostanze, che sono principalmente di decadenza e povertà, e che contribuiscono a tirare fuori la fragilità umana.

📷Parlando dei personaggi, li collochi sempre ai margini della società. Quando si pensa a Cous Cous Klan si tratta di un’emarginazione anche geografica. Tuttavia, guardandoli da vicino è facile trovare delle similitudini e riconoscersi. Perché scegli di isolare i tuoi personaggi?

Quando si parla di emarginati in fondo si parla di una moltitudine di casi vicini a noi, non basta essere “solo” dei senzatetto. A livello di solitudine e a livello emotivo esistono molti emarginati sociali, a partire dai bambini. Cerco di stabilire un legame tra i personaggi che creo e le persone. Alla fine non importa che tu sia in un bar o in un campo Rom, se stai raccontando il bipolarismo di un personaggio, racconti un problema di questa società: ovvero le patologie mentali che portano all’esclusione.

Quindi come nascono i personaggi?

Nascono da un’idea di storia complessiva e dalla volontà di esplorare i temi del presente e le fragilità contemporanee. Sicuramente lì dove ci sono i perdenti, dove gli ultimi vivono con le loro mancanze, dove non ci sono i pieni, ma i vuoti, è lì che trovo un terreno fertile.

Perché hai detto che i bambini sono estraniati?

Se guardo questa società iperattiva e molto selettiva, dove i bambini sin da piccoli sono classificati, in una scuola in cui già si confrontano con i voti e la competizione, dove molto presto iniziano a prendere psicofarmaci, capisco che non esiste un’educazione emotiva. Nella scuola esiste un’educazione intellettiva e fisica: tutti devono fare sport e tutti devono imparare, ma nessuno insegna loro l’affettività. Secondo me stanno crescendo delle generazioni di disagiati emotivi.

Parlando invece dei personaggi femminili: nei tuoi testi c’è un tipo di donna rude che sembra castrare la sua femminilità, a cui si contrappongono donne con caratteristiche femminili accentuate, come la provocazione in Nina di Cous Cous Klan, o l’ingenuità di Wanda in Thanks for Vaselina. Potresti spiegarci questa ambivalenza?

In generale mi piace scrivere figure femminili forti, che non siano messe lì a fare da contraltare ai personaggi maschili. Quindi cerco di dare ai personaggi maschili molte energie femminili, come in Colpo di Frusta e in Sciacallo di Animali da bar, e viceversa. Anche Wanda, per quanto fragile, dolce e ingenua ha una sua aggressività, la voglia di andare nel mondo e raccontare chi è. In generale, e questo vale per tutti i personaggi, sono persone che vengono raccontate dentro a una lotta, sono dei combattenti. E le figure femminili, così rudi e dure, sono spesso donne che si sono adattate al mondo degli uomini e cercano di combatterlo.

Come funziona, passaci l’espressione, il tuo processo creativo? Quanto c’è di te in quello che scrivi?

In tutti i personaggi c’è qualcosa di me: dall’ 1% all’80%. Il mio processo è sempre molto caotico, soprattutto all’inizio. Parto da una raccolta di materiali, spunti, idee e pensieri, che a poco a poco definiscono tracce narrative e personaggi, e lentamente, creo una forma e cerco di agglomerarli fra loro, tra positività e negatività, contrapposizioni e aderenze. Un po’ come l’incontro tra neuroni e protoni. Alla fine diventano un solo corpo, ma ci vuole molto tempo.

Parlando del linguaggio dei tuoi testi, lo potremmo definire molto crudo. Come usi il linguaggio teatrale? Che valore ha per te? In teatro, a differenza del cinema, hai modo di avvertire direttamente la reazione del pubblico…

Molte volte i personaggi sono il linguaggio che parlano. Questa modalità di espressione un po’ acre e disadorna ha una funzione oscena, letteralmente fuori dalla scena, provocatoria. Usata per togliere il superfluo, il perbenismo, e svelare cosa c’è oltre. Credo che il pubblico lo apprezzi perché sente il linguaggio chiaro del quotidiano e dello slang che tutti usiamo. Molte volte è esagerato proprio per far cadere tutti quei tabù culturali, linguistici e sociali a cui siamo abituati. In qualche modo i personaggi ci fanno un grande dono perché vanno nel mondo al posto nostro e usano un linguaggio che noi non possiamo usare sempre nella vita. Compiono una missione per noi, ci svelano cosa c’è oltre le parole e alla loro aggressività: un grande bisogno di tenerezza.

Studi molto per preparare i tuoi testi…

Beh sì. Tutti gli spettacoli partono da riflessioni filosofiche, sociali e psicologiche. Cous Cous Klan nasce da alcuni libri di Nietzsche, dagli Archetipi dell’inconscio collettivo di Jung. Sono tante le ricerche che nascondo nel testo: per un autore non c’è niente di più orribile che far vedere all’interno di ciò che scrive quello che sa o meno. Anche se le sensazioni e i pensieri che ho fatto durante la mia fase di elaborazione alla fine sono tutti dentro ai personaggi.

…e affronti molte tematiche, che misceli e moltiplichi. Qual è la tua esigenza?

Mi piace lavorare sulla sovra-densità. Molte volte vado contro alcuni principi della drammaturgia che vorrebbero una sola linea orizzontale per la storia, e delle linee molto semplici in senso verticale, ossia quelle riferite alle vicende dei singoli personaggi. Io spesso invece sovrabbondo, perché amo la densità di argomenti, che poi è quella della vita. Ognuno di noi porta con sé molti temi, e mi piace raccontarne la frenesia.

E sì, questa frenesia di Carrozzeria Orfeo scuote e accelera i battiti. Concepisce un germoglio sul terreno sparso di sale e consegna allo spettatore l’onere di farlo crescere, trapiantandolo al riparo da pregiudizi e perbenismi, e coltivandolo con le attenzioni che il mondo estirpa come erbacce dalle nostre anime.

Per il futuro, rimanete collegati: il film di Thanks for Vaselina è stato girato e aspetta la sua uscita entro la fine dell’anno.


Alessandra Pace e Marta Zannoner

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