4 Novembre 2019
Dopo la “personale”, la “rassegna”, la “retrospettiva”, o come la si voglia chiamare, dedicata a Deflorian/Tagliarini, la domanda che sorge dalle profondità delle viscere è: cos’è il teatro e, soprattutto, cosa sto guardando esattamente? Si badi bene, questa non vuole essere una provocazione in negativo, ma una semplice e forse anche semplicistica, riflessione in merito all’“ottava arte” (licenza poetica,ndr), che in sé racchiude le precedenti e certificate sette. Daria Deflorian e Antonio Tagliarini hanno fatto dello stile meta-teatrale il loro marchio di fabbrica: la coppia artistica indaga la creazione dello spettacolo, della ricerca che va fatta per riuscire a delineare un prodotto finale. Dunque, cosa abbiamo visto realmente? Gli attori si sanno distinguere e comunicano la loro umanità, mischiando l’analisi delle vicende che vogliono raccontare con le loro esperienze “personali”. Realtà e finzione si mischiano e creano un unico grande personaggio, dotato di carattere, fragilità, di aspetti simpatici e antipatici. I protagonisti offrono un Pantone di animi umani, passando dall’ingenuo al “radical chic” (definizione molto usata ultimamente, forse senza sapere che il coniatore è l’illustre Tom Wolfe). Quando si va a vedere uno spettacolo di Deflorian/Tagliarini bisogna essere preparati e pronti anche a storcere il naso, magari vergognandosi per non essere in grado di comprendere appieno il loro linguaggio innovativo. Siamo forse dei dinosauri tradizionalisti? Ad ogni modo, noi ne abbiamo visti tre.
Rewind prende le mosse a partire dall’intramontabile e quanto mai iconico Café Müller di Pina Bausch. Una sedia in apertura di spettacolo fa convergere tutta l’attenzione degli spettatori intorno alla questione che vorrebbe definire il suo valore, partendo dal presupposto che quella sedia arriva proprio da un varco spazio temporale che dal 1978, anno di creazione di Café Müller, l’ha catapultata su una di quelle piattaforme che hanno il potere di rendere dozzinale anche il cimelio più prezioso: ebay.it. Ma la possibilità di acquistare online un pezzo di storia non necessariamente determina il potere di appropriarsi del suo valore. I due autori in questo caso, di fronte al manifesto del Tanztheater, non hanno potuto fare altro che scostarsi, fermarsi a contemplarlo: lo spettacolo procede seguendo i tempi di Café Müller, la cui proiezione video viene avviata da un computer che costituirà, per tutta la durata della performance, la tanto odiata quarta parete digitale che tiene lontana la riproducibile contemporaneità dalla pura essenza di un fatto già accaduto e compiuto. Una distanza che pesa come un macigno sulle coscienze di chi, conoscendo il lavoro di Pina Bausch, è costretto a fruirne la telecronaca, e su quelle di coloro che invece, non conoscendolo, non ricevono dal palcoscenico alcuno strumento che possa favorire il naturale insorgere di una curiosità.
Spiraglio di riflessione più ampio arriva da Reality, minuziosa analisi di gesti tanto quotidiani quanto insignificanti, che più a fondo scavano nel senso della ripetizione delle nostre azioni, in quanto umani, micro pulviscoli su questa terra. È possibile che ognuno di noi – sembrano dire i due autori – possa smetterla di ambire all’unicità, smettere di sgomitare come partecipanti di un reality per essere finalmente consacrati con il pieno diritto alla riconoscibilità che viene dall’essere originali. È possibile piuttosto fermarsi, e sorridere dell’assurdità che è in ogni singola esistenza guardata al microscopio.
E poi arriva Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni, che parla di un fatto di cronaca greca, della Grecia colpita e inginocchiata dalla crisi. I protagonisti salgono sul palco e subito dichiarano di non essere in grado di andare in scena. Quello è l’avvio dello spettacolo, che si snoda in parole e discorsi che spaziano dalle signore anziane, che hanno deciso di uccidersi per non pesare più sulle casse dello Stato, alle crisi personali ed economiche. Vincitore del Premio Ubu nel 2014, il duo artistico ha reso una tragedia distante un fatto personale, mettendo da parte la facile retorica politica. Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni è lo spettacolo più interessante della trilogia proposta, ma quello che lascia allo spettatore è una risata, un metodo interessante di fare teatro. Dunque la domanda cambia: a cosa serve il teatro?
Alessandra Pace & Marta Zannoner
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